Indice glicemico e dolcificanti artificiali
Sempre più frequentemente, specie tra le persone che soffrono il disagio del diabete, si va
affermando l’importanza degli effetti fisiologici derivanti dal consumo degli zuccheri
semplici o complessi, (cioè i carboidrati) tra cui gli amidi. Il parametro base degli effetti
viene misurato nel cosiddetto “indice glicemico”. È noto che esistono carboidrati che sono
digeriti più velocemente (amido delle patate e del pane) con il conseguente rapido aumento
della concentrazione di glucosio nel sangue (glicemia) al quale il fisico sano contrappone il
rilascio dell’ormone insulina: cioè un processo che facilita la penetrazione del glucosio
all’interno delle cellule per una sua utilizzazione come fonte di energia. Il consumo
eccessivo di questi amidi comporta il mantenimento, e spesso l’aumento, dei depositi di
tessuto grasso favorendo il soprappeso e l’obesità. Di converso la mancata risposta
insulinica conseguente all’aumento della glicemia può indurre a cercare altro cibo in un
circolo vizioso. Per il diabetico, quindi, è più opportuno consumare carboidrati a più lento
assorbimento (amido della pasta al dente, amidi di legumi, frutta ricca di zuccheri semplici
ma a basso tenore di glucosio) in modo che la glicemia salga più lentamente; ciò produce
l’effetto di una maggiore stabilità del tasso zuccherino nel sangue e un più prolungato
senso di sazietà.
Questa premessa era necessaria per introdurre l’argomento del consumo di dolcificanti
artificiali tenendo conto che oggi è aumentata l’offerta di cibi a basso o ridotto contenuto
energetico. Una scelta sempre più frequente per aiutare quanti hanno bisogno di contenere
l’apporto calorico finalizzato a mantenere un corretto equilibrio energetico e,
conseguentemente, la stabilizzazione del peso e magari il calo ponderale. È in quest’ottica
che si pone l’aumentato consumo di dolcificanti intensivi come sostituti del saccarosio allo
scopo di contenere la densità energetica della propria dieta, senza per questo intaccare il
gusto. Rispetto a questo consumo c’è da rilevare come sia ciclicamente messa in dubbio la
sicurezza di tali dolcificanti sulla salute dell’uomo. Tuttavia, con riferimento all’aspartame,
va detto che nel 2006 l’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza degli Alimenti), e nel
2007 l’FDA (Federazione America del Diabete) hanno smentito il rapporto tra consumo di
aspartame e rischio di neoplasie. A confermare l’assenza di pericoli ci sono pure studi di
importanti istituti italiani di ricerca che hanno escluso un nesso tra l’uso di altri dolcificanti
e l’insorgenza del rischio neoplastico ma, come in ogni campo, tutti sanno che sono gli
eccessi a far male. Un argomento collegato è il consumo delle cosiddette “bevande soft”
per le quali non sembra esistere un motivo sensato per bandirle completamente dalla
propria dieta (se si esclude la tendenziale paura verso ciò che è chimico). Negli ultimi
tempi si è intensificata la tendenza a preferire, in modo selettivo, bevande dolci ma di fatto
acaloriche. Questa disponibilità di ”bevande dolcificate” artificialmente e la sempre
maggiore offerta di alimenti a basso contenuto energetico rende oggi possibile non
rinunciare al piacere del gusto dolce senza aumentare il carico calorico.
Ma deve essere chiaro che la libertà di consumare particolari alimenti e bevande deve
ricadere entro scelte responsabili e di consapevole equilibrio, senza un’esasperata ricerca
del “piacere”. L’argomento descritto riporta a spendere poche parole sulla saccarina: essa
possiede un potere dolcificante da 300 a 500 volte superiore rispetto allo zucchero comune;
non essendo metabolizzata nell’organismo essa risulta acalorica e stabile in quanto resiste
ad alte temperature. Su base mondiale risulta di gran lunga il dolcificante più utilizzato in
assoluto; essa trova il consenso del mondo scientifico e la dose attuale è fissata in 2,5
mg/kg del peso corporeo. Il sucralosio è un disaccaride con un potere dolcificante 600
volte superiore al saccarosio. Non possiede potere calorico, è scarsamente assorbito e viene
eliminato invariato. È stabile ad alte temperature e può essere utilizzato anche per alimenti
da cuocere al forno. È considerato un dolcificante sicuro e le dosi consigliate parlano di 5
mg/kg del peso corporeo. Infine, c’è da riflettere sul consumo di bevande analcoliche
che, naturalmente, si colloca nel più vasto tema dell’alimentazione. Siamo in presenza di
un argomento che, a torto o a ragione, può essere considerato –oltre che per l’aspetto
nutrizionale– anche per quello relazionale, cognitivo ed affettivo (ma non quanto
l’assunzione di alcool). Il bere analcolico presenta un quadro abbastanza limitato sia
qualitativamente che quantitativamente. I modelli psicologici legati alle indagini sul bere
analcolico e delle preferenze non sono molti. Esiste invece un’ampia letteratura
sull’argomento affrontato dal punto di vista biologico e, in particolare, sugli effetti che la
grande disponibilità di queste bevande può generare:incremento dell’obesità e soprappeso.
Un rischio quest’ultimo, come più volte ricordato in questo Notiziario, che presenta
numerosi rischi di morbilità e di mortalità. Il consumo eccessivo dei soft drink e quindi di
bevande analcoliche gassate e zuccherate può essere collegato ai rischi suddetti come pure
a problemi di disagio psicologico. Se ne ricava che il ricorso a questo tipo di bevande può
essere collegato all’emotional eating, cioè al mangiare in seguito a particolari stati emotivi.
Ci sono delle evidenze scientifiche di un’elevata associazione tra il piacere e la frequenza
del consumo di una determinata bevanda. Diverse ricerche suggeriscono che le bevande
analcoliche forniscono sensazioni piacevoli che portano a un loro regolare consumo. Su
questo influisce il colore, unito alla percezione di una sensazione rinfrescante e dissetante.
Di per sé le bevande analcoliche non fanno male purché il consumo rimanga limitato
ricevendone un piacere ma nel rispetto del proprio corpo e della salute.